Esclusiva intervista a Giuliano Frosini (dir. rel. esterne, istituzionali, comunicazione Lottomatica). Modello distributivo, riordino settore, gioco ed economia reale, sviluppo estero, reti paralegali e liquidità internazionale

Dal modello distributivo, alla necessità di un riordino equilibrato del mercato, dall’ossimoro governativo gioco ed economia reale alle soluzioni di sviluppo e consolidamento, dal paradosso delle reti paralegali autorizzate alla liquidità internazionale. Insomma, un’intervista a tutto campo, con uno sguardo al passato, allo stato dell’arte ed al futuro del mercato dei giochi in Italia.

Partiamo dalla parte politica. Circa un anno fa si insediava il nuovo governo: quali sono i provvedimenti che lei ha trovato sbagliati, sproporzionati o che potevano essere fatti in qualche altra maniera? Ce n’è, invece, qualcuno che lei ritiene giusto?

Un vecchio adagio recita che “chi non fa inchieste non ha diritto di parola”. Un adagio che ben si adatta all’impatto politico affrontato dal settore del gioco negli ultimi mesi. Personalmente trovo sbagliato che, almeno per il momento, si sia scelto di non approfondire le tematiche riguardanti il gioco. Si è proceduto per posizioni pregiudiziali sia per quanto riguarda gli aspetti sociali sia per quelli economici. Tutti gli Stati individuano, attraverso regole comunitarie rodate, comparti dove apporre riserve e da regolare, con argomentazioni che, nel caso dei giochi, vanno dall’ordine pubblico alla sicurezza e con un occhio agli utili erariali. Detto questo rimane complicato da comprendere il perché di alcuni provvedimenti che possono creare una dannosa confusione nell’utente finale, come il divieto di pubblicità, che elimina una importante fonte di distinzione, drogando di fatto il mercato a vantaggio dell’offerta illegale. Ma anche se non condivido l’orientamento del legislatore, le sue scelte vanno rispettate; meglio però se sono frutto di una strategia coerente. In tal senso il Decreto Dignità, modificato in conversione da proposte dell’opposizione, ha parzialmente perso la strada della coerenza, come dimostra la scelta di imporre che il 20% della superficie dei Gratta & Vinci sia dedicata a messaggi di avvertenza come quelli delle sigarette. Potrebbe essere invece positivo quanto previsto in tema di riordino dei giochi. Il condizionale è d’obbligo visto che sarà fondamentale come ciò verrà attuato. Il cuore del riordino, secondo me, sta nel modello distributivo, attualmente molto capillare, forse troppo.  Dal 2004 infatti si è pensato ad un progressivo allargamento del portafoglio dell’offerta di gioco pubblico per “costringere” all’emersione fette di mercato sommerso, con conseguente trasformazione dell’offerta illegale. Una buona idea, portata avanti con equilibrio da un bravo regolatore. Negli anni successivi tuttavia, si è osservato che una distribuzione troppo capillare rischia di determinare degli impatti sociali. I concessionari sono i primi a credere che un modello distributivo più contenuto possa portare dei benefici. L’importante sarà trovare un modello sostenibile, dettato da un insieme di norme a carattere programmatico e di lungo periodo.

Perché spesso viene sollevato, nell’ambito politico, il tema che i concessionari di gioco guadagnino troppo e quindi possano essere portatori sani di nuove tasse?

Il punto non è se un soggetto privato investito di un potere pubblico guadagna troppo o troppo poco. L’idea che lo Stato si affidi a dei partner per la realizzazione delle proprie attività non è un’idea nuova che riguarda il settore del gioco, ma un’idea antica che riguarda anche altri servizi ed infrastrutture di pubblica utilità. Il fatto che va evidenziato è che il soggetto concessionario di attività svolge una funzione fondamentale per conto dello Stato, quella di indebitatore di qualità. In pratica il soggetto concessionario è in grado di realizzare infrastrutture potendosi indebitare a tassi più vantaggiosi di quelli che troverebbe lo Stato e con il tempo si ripaga, con una giusta percentuale di guadagno, delle somme che ha anticipato. E va anche ricordato che per questo genere di lavoro esistono giustamente premi e penalità, che rappresentano il rischio di impresa. Insomma, si tratta di un impianto valido per numerosi ambiti e settori, che trovo efficace, e che evita allo Stato di aggiungere debito al già oberato perimetro del debito pubblico.

Passiamo all’economia. Spesso si sente dire che quella dei giochi non è un’economia reale. È d’accordo con questa affermazione?

Personalmente non capisco bene cosa si intenda in questo caso per economia reale. È comunque un tema che riguarda molti settori e non solo quello del gioco. Il problema è forse quello dell’abuso di un prodotto. Se compro, ad esempio, solo scatole di biscotti facendola diventare un’attività ossessiva che va a compromettere le mie necessità primarie, non è economia reale. Ma se ne compro una ogni tanto, la mia passione per i dolci non andrà ad intaccare la sostenibilità del mio bilancio e neanche la qualità della mia vita. In questo senso, il gioco, se non eccessivo, è economia reale. Ma restando in tema di economia reale, piuttosto colpisce come gli interventi continui sulla pressione fiscale possano portare a derive pericolose dei consumi. La curva di Laffer mette in relazione la pressione fiscale con il gettito erariale derivante dai consumi (ndr: fu impiegata da Arthur Laffer, economista dell’University of Southern California per convincere l’allora candidato repubblicano alle elezioni presidenziali del 1980, Ronald Reagan, a diminuire le imposte dirette ndr). Se la pressione fiscale per l’acquisto di un bene aumenta troppo, la curva dei consumi si ripiega su sé stessa. Questo perché contrastare il gioco patologico sul piano degli impatti sociali è un conto, farlo attraverso un continuo aumento di tassazione è un altro. In questo secondo caso la curva ripiega su stessa ma la propensione al consumo rimane invariata e ci si rivolge ad altri mercati per soddisfare la domanda. Si ottiene quindi l’effetto di deprimere l’Erario senza calmierare l’impatto sociale. Un esempio è quello delle sigarette di contrabbando. Si tratta di un fenomeno che si può definire quasi debellato o comunque molto ridotto, ma questo è avvenuto non solo con la repressione, ma intervenendo sull’accisa e rendendo di fatto poco conveniente rivolgersi al mercato nero. Insomma, interventi di tipo esclusivamente proibizionistico ottengono l’effetto di spostare la propensione al consumo verso mercati illegali. Anche nel gioco interventi di questo tipo farebbero quindi spostare il consumatore verso mercati non sicuri e senza tutele.

È ancora un mercato sostenibile per le aziende? Ci sono ancora margini di sviluppo? Si andrà verso una concentrazione di operatori?

Nel medio-lungo periodo assisteremo a dei consolidamenti aziendali a prescindere dalle politiche sul settore. Trovo naturale e logico che i mercati caratterizzati da una loro maturità, come quello del gioco, affrontino con responsabilità il tema del consolidamento. Un sano consolidamento serve peraltro a mettere le aziende nelle condizioni di affrontare altri mercati. Nel corso del tempo, infatti, anche altri Stati hanno intrapreso questo percorso di regolamentazione del gioco pubblico legale e quindi soggetti più solidi economicamente e più organizzati, hanno puntato ad esportare all’estero il proprio modello. Va detto che il nostro è considerato un modello di eccellenza. Si veda ad esempio il tanto vituperato gioco online che già 10 anni fu oggetto del libro bianco della parlamentare danese Shaldemose, la quale prese a modello l’eccellenza italiana. Comunque, il nostro è un mercato maturo e quindi lo sviluppo va cercato anche all’estero, aggredendo altri mercati regolati. Io sono molto d’accordo con il Ministro Tria: per svilupparsi bisogna avere un quadro regolatorio stabile: è questa la chiave di un modello sostenibile, in grado di attrarre capitali e garantire sviluppo, posti di lavoro e infrastrutture tecnologiche innovative. Insomma, anche in un quadro regolatorio restrittivo, le aziende si adatteranno a patto che quel quadro resti stabile nel tempo.

Lo Stato sembra contraddirsi quando parla di risorse erariali derivanti dal gioco. Da una parte sembra che non gli interessino, dall’altra ci punta per coprire iniziative come il Reddito di Cittadinanza.

La questione del gettito, benché assai rilevante, è tuttavia secondaria in questa analisi: se la volontà fosse quella di fare a meno del gioco pubblico legale evidentemente si farebbe anche a meno degli utili erariali corrispondenti. Io però mi porrei la seguente domanda: se ho deciso di fare a meno dell’utile erariale perché ho deciso di fare a meno del mercato legale, dove finiranno i soldi dei consumatori? Il mercato di fatto si regola da solo. Se perdo pezzi del legale, i consumi confluiscono inevitabilmente nell’illegale. Nel 2004 molti giochi non presenti sul mercato legale, esistevano come offerta illegale, quella dei cosiddetti videopoker. La successiva regolamentazione ha progressivamente spostato questi segmenti all’interno di un recinto statale con evidenti vantaggi: prima di tutto per i consumatori-giocatori, per le aziende legali e per lo Stato. Dagli 800mila videopoker illegali del 2004 siamo passati alle 265mila awp di oggi. Sono troppe? Riduciamole. Ma rinunciare ai proventi in nome di una ideologia a me sembra inefficace perché si otterrà come risultato di rinunciare sì ai proventi, ma che quelle persone che volevi tutelare si rivolgeranno a mercati illegali e saranno ancora meno tutelate.

Passiamo alla cronaca. La ludopatia si combatte con il proibizionismo?

Il gioco fa parte da sempre della natura umana. Ciò non rappresenta una perversione a patto che, come dicevo, esso sia consumato senza eccessi e assolutamente non invada il campo degli altri bisogni primari delle persone. Viceversa, chi fa del gioco un’ossessione, un processo di destabilizzazione personale e familiare, va seguito ed assistito. Ma il proibizionismo non serve, è un fatto storico.

Come Agimeg abbiamo fatto un calcolo che nei primi 44 giorni dell’anno ci sono stati 43 interventi tra comuni, province e regioni in tema di gioco e il distanziometro e leggi regionali contro il gioco sono all’ordine del giorno. Secondo lei questa mappatura a macchia di leopardo del gioco potrà trovare una soluzione magari con un regolamento nazionale o parliamo di un’utopia visti gli ultimi avvenimenti?

Di solito le Regioni legiferano in materia di distanze, i Comuni sugli orari. Io non sono tra quelli che ritengono che i Comuni siano portati a fare politica a spese del Governo centrale. Il pensiero comune, infatti, è che non avendo introiti diretti dal segmento del gioco, gli enti locali si sbizzarriscano con interventi demagogici. Io penso invece che il problema è che non vi è sempre il giusto equilibrio quando si pensa a misure draconiane in nome di materie “concorrenti”, che sfuggono alla riserva statale. Se si istituzionalizza il concetto di “turismo da intrattenimento” a vantaggio di questo o quel territorio, secondo me non si fa un buon servizio. È emblematico quello che è successo in alcune zone d’Italia: in alcuni comuni italiani le disposizioni sugli orari hanno previsto che i prodotti di gioco siano venduti in determinate fasce orarie con il paradosso che il giocatore non può accedere alle slot del canale legale, ma può farlo presso un punto non legale che, in quanto tale, non sottostà alle regole comunali. Arrivare ad una regolazione armonica non sarà facile, anche questo è compito del riordino, ma le soluzioni esistono e sono numerose; la prima sarebbe lavorare su una riduzione del numero dei punti di gioco con conseguente contingentamento calibrato per ogni Regione.

Concludiamo con un tema tornato di moda, la liquidità internazionale?

La liquidità internazionale, di cui non si sente alcun bisogno, è un tema “carsico”. Io però trovo abbastanza singolare che mentre si discute delle tante misure che vanno verso un contenimento dell’offerta e una sempre maggiore tutela del giocatore, ci possa essere ancora un dibattito sulla liquidità internazionale. Mi pare che l’Italia abbia saggiamente accantonato l’idea di costituire un meccanismo che sarebbe rischioso per i giocatori e lesivo per le imprese italiane.  Peraltro, a trarne vantaggio non sarebbero i giocatori, ma solo pochissimi players internazionali che avendo già a disposizione cluster di giocatori in tutti i paesi partecipanti all’accordo, creerebbero una concorrenza distorsiva.

 

(Agimeg/ff)

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